La Roma di Mussolini

Dopo aver ottenuto la “cittadinanza romana” nell’aprile del 1924, Benito Mussolini volle dimostrare con chiarezza il posto occupato dall’“Urbs” nel suo spirito, ed il suo ruolo  nell’ Italia moderna. Il 31 dicembre del 1925, in un discorso dal Campidoglio, affermò di voler dare case, scuole, bagni, giardini, e terreni, al popolo fascista. Il 30 ottobre del 1926, in un discorso a Reggio Emilia, spiegò che non solo la Capitale, ma tutto il Paese, “in dieci giorni non si riconoscerà più”. Nel 1927 l’architetto Enrico Del Debbio venne incaricato di progettare l’ Accademia di Educazione Fisica a Roma, ma il progetto divenne di maggiore ampiezza, su richiesta di Mussolini, per diventare il Foro Mussolini nel 1936. La struttura, nel complesso, si ispirò al neoclassicismo, con contaminazioni di stili architettonici diversi. Ma Mussolini aveva ambizioni più grandi. Era tutta la Capitale che doveva essere radicalmente modificata.  Divideva i problemi da affrontare in due categorie: quelli della “grandezza” di Roma e quelli della “necessità”. Ma non poteva affrontare gli uni senza aver risolto gli altri. I problemi della “necessità” derivavano dallo sviluppo cittadino, che esigeva necessariamente lavori di urbanizzazione. Il duce voleva facilitare con ogni mezzo l’abbandono delle campagne, osteggiando con ogni mezzo l’immigrazione ad ondate nelle città. I problemi della grandezza di Roma erano di un’altra natura. Occorreva liberare la città antica dalle sue  “brutture”, creando contemporaneamente la Roma monumentale del XX secolo. Mussolini non nascondeva che la realizzazione di quest’opera avrebbe necessitato la virtù “tipicamente romana” della tenacia. La parte edile di questo programma venne affidata al “Governatore dell’Urbe” Filippo Cremonesi. In cinque anni, gli ricordò Mussolini nel 1925, Roma avrebbe dovuto sorprendere l’Universo: meravigliosa, ordinata, e potente, come lo fu ai tempi di Augusto. Si erano manifestati molti interessi per il rinnovamento urbano, suscitando forti polemiche tra “innovatori” ed “amanti dell’antichità”. Il regime doveva, inoltre, confrontarsi con l’architettura accademica, che offriva spesso soluzioni di modernità, così come con le esigenze di imprenditori legati ad interessi di “lobbies” finanziarie. In seno al monumento dedicato a Vittorio Emanuele II, l’architetto Armando Brasini aveva scavato la cripta del milite ignoto, ed installato il Museo del Risorgimento. Ma furono i suoi progetti monumentali su Roma, centrati sulla creazione di un grande Foro Imperiale che si sarebbe esteso da Piazza di Spagna a Piazza Colonna, con la conseguente distruzione di una parte della città storica, a stimolare l’interesse di Mussolini. I due principali rappresentanti dell’architettura accademica erano, all’epoca, Gustavo Giovannoni e Marcello Piacentini. Un notevole contributo alla conservazione della città antica fu apportato da Giovannoni con la nozione di “ambiente”, che preservava la struttura dei monumenti nella struttura urbana. Piacentini riprese il progetto della “Grande Roma”, elaborato sotto la sua direzione, nel 1925, dal Gruppo Urbanistico Romano, al fine di decentralizzare l’“Urbs”, per controllarne la crescita. In tal modo l’architetto salvaguardò, in parte, la vecchia città, limitando  l’espansione della sua periferia, creando delle città satelliti, dove sperava di sperimentare uno stile “veramente italiano e fascista”. Mussolini inaugurò nel 1930 i lavori della Commissione del Piano Regolatore di Roma, ribadendo che occorreva liberare i monumenti della sua città, orientando  la sua estensione verso il mare e verso le colline. L’anno precedente Piacentini sperava ancora di risparmiare le zone monumentali dell’ “Urbs”, piuttosto che accanirsi a fare degli scavi molto onerosi, ma le direttive governative spinsero i governi a “liberare” i monumenti da quelle che il duce definiva “incrostazioni parassitarie accumulate in secoli di abbandono”. Mussolini voleva procedere regolarmente, ed il Piano Regolatore di Roma sarebbe stato presentato appena sei mesi dopo. Il trasferimento della Stazione ferroviaria a Termini consentì di far posto al nuovo centro urbano. In seguito il Piano subì diverse varianti, che arrivarono ad annullarne, in parte  gli aspetti pianificatori. Piacentini sarebbe diventato, verso la metà degli anni 1930, l’ “architetto del principe”, e l’ideatore ufficiale dei progetti del regime. Il suo stile si sforzava di conciliare l’accademismo di Brasini con il carattere funzionale di Giovannoni, e la purezza della forme del razionalismo. La Roma di Mussolini e la sua estensione ubbidirono agli interessi delle società immobiliari, e queste non rispettarono  la raccomandazione del duce di “vedere le cose in grande”. Del resto  il dittatore considerava   l’architettura “la più grande di tutte le arti”, e si proclamava volentieri il “padre spirituale” del Piano di Roma. Queste trasformazioni  non sempre furono apprezzate dai romani, che in alcuni casi protestarono contro la mania delle demolizioni. Mussolini reagì a queste riserve, affermando che il più grande errore sarebbe stato quello di sacrificare la “nuova Roma” alla nostalgia di un “ammasso di rovine”. Roma si ingrandiva, ed occorreva adattarla alle necessità della vita moderna. Il direttore delle antichità e delle Belle Arti sarebbe diventato  l’esecutore delle volontà del duce. Il programma di restauro delle antiche rovine era sostenuto dall’interesse con il quale la nazione seguiva lo sviluppo delle ricerche archeologiche. Si trattava di restituire splendore alla Roma imperiale, quella da Augusto a Traiano. L’aspetto più spettacolare del restauro del Foro antico riguardò l’apertura di quattro arterie che circondavano  la zona archeologica. Delle due vie che partivano da Piazza Venezia, solamente la Via del Mare conservò  il suo nome. La seconda venne battezzata da Mussolini, il giorno del decimo anniversario della marcia su Roma, con il nome di Via dell’Impero. La grande realizzazione del 1933 fu l’apertura di Via dei Trionfi. Tuttavia, l’apertura di queste arterie implicò la distruzione di una serie di palazzi, con le  chiese di Sant’Orsola e di Sant’Andrea. Nel 1937 lo sgombero del Foro risulta ultimato, e le sue nuove arterie, bordate di antichità, avevano già ricevuto il battesimo con le sfilate vittoriose del Fascismo. Il bimillennario era stato commemorato nel 1930, e l’archeologo Giulio Quirini Giglioli e l’architetto Vittorio Ballio Morpurgo vollero trasformare il mausoleo di Augusto in un santuario virgiliano. Il luogo risultò adatto, ed il ricordo del poeta latino si associò a quello dell’imperatore romano. Le rovine del Teatro Marcello celavano le sale rinascimentali del Palazzo degli Orsini, ed ospitavano dei chioschi sotto le loro arcate gotiche. Queste piccole attività furono espropriate, per consentire il restauro del monumento antico.  Sulla piazza della Bocca della Verità si potevano ammirare la colonne corinzie del piano di Vesta, ed il piano rettangolare del vicino santuario. Molti romani  ritenevano che la piazza avesse perso molto del suo fascino originario. Inoltre, con il pretesto di aprire una larga vista sui cipressi del Palatino, era stata soppressa la tela di fondo, che costituiva l’unità dei suoi monumenti. L’instancabile attività di Piacentini si estrinsecò anche nella costruzione di teatri  e di edifici ufficiali, come il Cinema Corso in Piazza  Barberini, e l’imponente Palazzo del Ministero delle Corporazioni in Via Veneto, anche se la sua più importante realizzazione fu probabilmente la Città Universitaria, edificata nel quartiere Castro Pretorio. La scelta del luogo per realizzare l’Esposizione Universale del 1942 rispose, invece, al vecchio desiderio di Mussolini di ottenere  un’estensione di Roma verso il mare. Per quanto riguarda il centro di Roma, Brasini aveva avuto l’idea, insieme a Piacentini, di collegare Piazza Navona al Tevere con un’asse  di  grande circolazione. Questo progetto venne realizzato da Arnaldo Foschini con il taglio di Corso del Rinascimento, in modo da collegare Corso del Rinascimento a Via Zanardelli, passando per Piazza di Tor Sanguigna. Piacentini ebbe successo per aver preso in considerazione l’idea del razionalismo, che lo portò  all’eclettismo di uno stile neo-romano. Questa nuova tendenza architettonica offrì un approccio originale. L’esaltazione della Roma di Mussolini  portò al raddoppio della sua popolazione, che già nel 1941 superava 1,41 milioni. L’estensione della città proseguì  lungo le principali vie consolari. Al di là della Stazione Termini nuovi  quartieri si snodarono lungo la Via Tuscolana e la Via Appia. In questo periodo ci fu anche la creazione di insediamenti lontani dal centro, su terreni a buon mercato. A est di Porta Maggiore e di Piazzale San Lorenzo i quartieri del Prenestino e del Tiburtino presentarono situazioni spesso deplorevoli. Si svilupparono anche insediamenti residenziali, come la città-giardino di Monte Sacro, dove Giovannoni di ispirò al “garden suburb” inglese, per utilizzare al meglio le linee curve della collina. Il quartiere  Centocelle, sulla Casilina, rimase per lungo tempo separato dalla città da una fascia non costruita. I grandi immobili residenziali erano generalmente composti da un solo blocco, costruito intorno ad un cortile centrale, ed accostati gli uni agli altri. Il cemento rimpiazzò progressivamente la pietra, ed i piani iniziarono a moltiplicarsi. Vennero introdotte, con le “palazzine”, case circondate da giardini, la cui altezza non superava i 20 metri. Un ruolo di primo piano nella speculazione immobiliare che accompagnò queste vicende è da ascrivere all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, che finanziò numerosi lavori. Le distruzioni favorirono i grossi interessi a danno dei piccoli proprietari, coraggiosamente denunziate dalla rivista “Casabella” di Giuseppe Pagano sul finire degli anni Trenta. Era ormai nata una Roma moderna, prodotta da una semplificazione architettonica della tradizione.

Vincenzo Maio