Parole fuori registro

Di Paolo Pivetti

 

Certe parole della nostra lingua, nel corso dell’uso e dell’abuso storico, sono finite fuori registro.

Prendiamo per esempio apocalisse con l’aggettivo apocalittico, ultima spiaggia di ogni cronista cui non bastino altri aggettivi per raccontare un evento catastrofico.

Apocalisse nell’antica lingua greca significa rivelazione, non catastrofe, non disgrazia. È il titolo del ventisettesimo e ultimo libro del Nuovo Testamento, che rivela le verità ultime della Fede e profetizza la beatitudine finale, che verrà raggiunta, certo, attraverso  tribolazioni e patimenti: e di qui l’ombra negativa che è rimasta fissata sulla parola.  

Altri lemmi hanno subito una sorte simile: per esempio tutti quelli che terminano per “fobo”, che correttamente vuol dire “che ha paura”, dal verbo greco fobèo, e forse per ignoranza,  sono venuti a significare “che odia”, come xenofobo, omofobo eccetera. O quelli con la terminazione “poli” vale a dire “città”, dal greco pòlis,  che dopo tangento-poli, riferita a Milano “città delle tangenti”, sono diventati impropriamente sinonimi di “corruzione”: per cui ad esempio calciopoli, non significa “città del calcio”, ma “corruzione nel calcio”; e così via le varie vallettopoli, parentopoli eccetera.    

Ma tutti questi “torti” subìti dal patrimonio linguistico sono nulla in confronto con la falsificazione di cui è vittima, nell’immaginario collettivo, il termine Medio Evo, ormai diventato simbolo di oscurantismo, faziosità incivile, buia superstizione. L’ignoranza storica di chi bolla il Medio Evo di oscurantismo non tien conto del fatto che fu proprio quell’epoca, ricchissima di colore e tutt’altro che “oscura”, la fucina di tutta la nostra civiltà occidentale, non solo italiana ma europea, nata da una sintesi mirabile tra eredità classica e visione cristiana. Fu l’epoca dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, poi cancellati dal dispotismo delle Signorie rinascimentali; fu l’epoca della grande speculazione filosofica, dell’introduzione nella matematica e nelle scienze della numerazione “araba” (in realtà di origine indiana); fu l’epoca che vide la nascita letteraria della nostra lingua, col fiorire dei suoi più alti vertici poetici. Ed è superfluo ricordare cosa fu nelle arti figurative, dalla pittura all’architettura, l’immenso patrimonio di ricchezza che ci ha lascito in eredità il Medio Evo.

Già il termine “Medio Evo” è una falsificazione prospettica, nata nel Rinascimento e alimentata, poi, dal razionalismo illuministico, che vedeva quell’epoca gloriosa come un rozzo, oscuro intermezzo (“Medio Evo”, cioè “età di mezzo”) tra l’antica classicità greco-romana e la nuova classicità, fiorita nel Rinascimento e culminata nel Neoclassicismo settecentesco.

L’eredità di questi pregiudizi si è trasmessa fino ad oggi. Basta osservare come i politici se le suonano a copi di “medievalità”, o, se ne abbiamo lo stomaco, sopportare una puntata di quella truce pittura a tinte fosche che è l’ ”horror” televisivo tratto dal Nome della Rosa.